RACCONTAR STORIE, Premessa

Di Rita Valentino Merletti © Mondadori Infanzie, II edizione riveduta e ampliata, 2002 (Il testo che segue � presente in rete anche sul sito della Mondadori Ragazzi)

  "In Cina, tanti anni fa, viveva un vecchietto. Molti lo consideravano l'uomo pi� saggio del paese, altri pensavano che fosse un po' folle. Tutte le sere usciva nel suo giardino e con gran cura ne delimitava il perimetro spargendo briciole di pane. Un vicino di casa, incuriosito da questa pratica, gliene chiese la ragione. �Lo faccio per tenere lontano le tigri" rispose il vecchietto. Stupefatto, il vicino gli fece osservare che in quella parte del paese non c'erano tigri, che non se n'erano viste da anni e anni. Al che il vecchietto, imperturbabile, replic�: "Per l'appunto..."i

Fin da quando ero bambina, nel mio immaginario hanno vagabondato personaggi non innocenti. Con tenacia e determinazione hanno ordito una trama, riuscendo, alla fine, ad annodare tutti i fili e a mostrarmela intera. Una trama, o, piu' benevolmente, una storia, iniziata nel momento in cui ho incontrato il primo di questi personaggi, una piccola principessa di nome Sara Crewe.

Come certamente ricorderanno quelli che come me l'hanno conosciuta, la sua vita, iniziata tra gli splendori dell'India e proseguita tra i lussi e i privilegi di un esclusivo collegio inglese, ha subito una brusca svolta in seguito all'improvvisa morte del padre. Sola al mondo e ridotta in miseria, Sara ha dovuto subire le angherie dell'arcigna direttrice del collegio, fintanto che la sorte non ha ripreso a sorriderle. Con i personaggi che, in tempi successivi, hanno invaso i miei territori mentali, Sara ha in comune qualcosa che riguarda le storie. La capacita' di raccontarle era infatti una delle sue qualita' migliori, quella che attraeva le sue compagne piu' della sua ricchezza e della sua posizione privilegiata in collegio: "Non solo era bravissima a raccontare, ma adorava farlo. Quando sedeva al centro di un gruppo di ragazze e cominciava a parlare di cose meravigliose, i suoi occhi verdi scintillavano, le guance prendevano colore, gesticolava. Dimenticava il suo uditorio per vivere nel regno delle fate, in mezzo a re e regine di cui narrava le avventure. A volte, finito il racconto, era quasi senza fiato per l'eccitazione. Allora tirava un sospirone, si portava una mano al petto e rideva di quella sua infatuazione. "Quando racconto una storia -spiegava- non mi sembra che sia inventata ma reale. Mi sembra di impersonare io stessa tutti i personaggi uno dopo l'altro. Strano, no?"i

Tanto veritiere sembravano a Sara le storie che lei stessa inventava da riuscire a cucirsele addosso anche quando i suoi abiti principeschi -ma ancor piu' il suo spirito- erano ridotti a brandelli. Le storie - ha testimoniato Sara tendendo i primi fili della trama - hanno un grande potere: ci fanno essere principi o principesse anche quando il nostro andare per il mondo assomiglia a quello dell'ultimo dei diseredati.

Si dice, del resto, che raccontar storie sia quanto piu' ci caratterizza come esseri umani. E' arte antica e risponde a una necessità profonda. La necessità di farlo precede addirittura la conquista di alcuni degli strumenti che le sono necessari: nella notte dei tempi, le storie - esattamente come oggi - miravano a mettere in relazione empatica due o piu' individui. E se le parole per raccontarle non erano disponibili, erano i gesti, gli sguardi, i suoni a raccontare la paura, la sorpresa, il coraggio, la conquista. Dare forma di storia all'esperienza vissuta significava, allora come oggi, aver capito la necessita' di dare ordine a quanto accade, conservarne la memoria, creare un senso di appartenenza. A poco a poco, storia dopo storia si e' formata una sterminata enciclopedia. Del sapere, certo. Ma anche del sentire. E di quella particolarissima forma di conoscenza che rende possibile provare ciò che prova un altro individuo.

A dar piu' consistenza alla trama ordita da Sara, ad ampliarla, affinarla e arricchirla e' stato l'incontro con un'altra bambina, dotata di una capacita' solo apparentemente antitetica a quella del raccontare: la capacita' di ascolto. Momo, questo era il suo nome, "...sapeva ascoltare in tal modo che ai tonti, di botto, si affacciavano alla mente idee molto intelligenti. Non perche' dicesse o domandasse qualche cosa atta a portare gli altri verso queste idee, no: lei stava soltanto li' e ascoltava con grande attenzione e vivo interesse. Mentre teneva fissi i suoi vividi grandi occhi scuri sull'altro, questi sentiva con sorpresa emergere pensieri -riposti dove e quando? -che mai aveva sospettato di possedere."Ne' l'ascolto era limitato agli esseri umani, Momo ascoltava tutto e tutti: "...cani e gatti, grilli e rospi, sicuro, anche la pioggia e il vento tra gli alberi. E con lei ogni cosa parlava il proprio linguaggio". ii

Non puo' stupire allora se in presenza di un simile ascolto la fantasia di chi raccontava "fiorisse come un prato a primavera" o il narratore sentisse sollevarglisi dentro "una cateratta dalla quale straripavano zampillando inesauribili invenzioni, senza la necessita' di rifletterci prima o anche soltanto di pensarle". iii Il racconto e l'ascolto, dunque. Sara e Momo ed è la voce, la viva voce, lo strumento necessario a stabilire la relazione. Lo ribadisce l'esperto narratore Salim, terzo personaggio impegnato ad annodare i fili della trama, e lo fa a ragion veduta lui, che a causa di un maleficio ha perduto la voce e non può più narrare. ivUna notte, mentre silenziosamente ripensa a una storia che era solito raccontare si chiede perche' mai, in passato, al termine del racconto si sentisse sollevato, mentre ora non avverte altro che una gran tristezza. Forse perche' il silenzio a cui è condannato gli ha fatto dimenticare i dettagli della storia? No, non e' questo il motivo: "Tutte le storie - afferma Salim- sono nude e spoglie, all'inizio. Ma quando inizio a raccontarle, le abbellisco con le vesti, i colori, i profumi che occorrono, e le faccio vivere."v

La genesi di una storia e' un momento magico, vibrante, intenso, paragonabile a quello di qualunque altra nascita. E nessuna nascita avviene in solitudine. La scrittrice americana Jane Yolenvi ricorre ad un ideogramma giapponese per dare efficacia e immediatezza a questa idea:

"SAKU TAKU NO-KI -così suona la trascrizione grafica dell'ideogramma- identifica l'attimo in cui la gallina e il pulcino picchiettando con il becco all'esterno e all'interno dell' uovo toccano lo stesso punto e frantumano il guscio. Le storie prendono vita allo stesso modo. Si trovano in due diversi luoghi: uno fisico che si puo' toccare e conoscere, l'altro, profondo e segreto, sta nei recessi del cuore. Perche' una storia abbia inizio e' necessario che questi due luoghi si incontrino."

Forse e' stato proprio il desiderio di ritrovare quel luogo di incontro, quella terra di mezzo fatta di connessioni e di relazioni a determinare in anni recenti e in molti paesi del mondo il ritorno al piacere di raccontare ed ascoltare storie. Nel momento del racconto – e qui sta la sua magia – esterno e interno si incontrano. Il narratore tiene avvinto l’ascoltatore con lo sguardo e con la voce, ma ciò non sarebbe sufficiente se non sapesse anche accompagnarlo a “picchiettare” alla porta del cuore. E’ quello, infatti, il luogo dove risiedono tutte le storie e da quel luogo le storie debbono uscire. Che si raccontino eventi personali, avventure fantastiche, miti o leggende metropolitane, non c’è storia e non c’è incanto se non c’è l’incontro capace di frantumare il guscio, di infrangere le barriere, di far cadere le maschere. Raccontando (e ascoltando) ci si mette a nudo.

I luoghi del racconto non sono piu' quelli di un tempo: non piu' la piazza o la stalla o il bar sport, ma le scuole e le università, le biblioteche, i centri sociali, le carceri, le case di riposo per anziani, gli ospedali , i musei, le librerie, i caffè letterari, i laboratori di scrittura creativa, gli studi degli analisti. Luoghi dove conta, e conta molto, la presenza fisica del narratore, dove è determinante la volonta' di una comunicazione autentica, semplice e accessibile. Una comunicazione che suscita un sentire comune e fa superare la contraddizione del sentirsi unici e diversi permettendo di riconoscersi nell'universalita' delle umane esperienze.

E' ormai normale, però, ritenere che la Grande Rete telematica costituisca il nuovo luogo di incontro, di ascolto e di racconto. Un luogo da vivere in solitudine, avvolti in una penombra azzurrina e ronzante, con il click del mouse che scandisce i tempi dell' interazione. Dallo schermo arrivano informazioni e notizie. Con lo schermo si dialoga, attraverso lo schermo si stabiliscono contatti. E lo schermo ci porta anche le sue storie. Tante, troppe, forse. Tante da far presagire scenari cacofonici, scenari che alla navigazione serena di partenza sostituiscono inquietudini da naufragio. Cio' che e' certo, tuttavia, e' che la Grande Rete soddisfera' una certa fame di storie. Cosi' come l'hanno soddisfatta, in passato, la lettura e le immagini in movimento di cinema e televisione sostituendosi ai racconti orali. La soddisferà, ma agli occhi un po' melanconici di chi, per eta' ed esperienza di vita, e' rimasto ancorato a forme di comunicazione diverse, la navigazione in rete alla ricerca di storie, virtualmente avventurosa quanto quella di Ulisse, mancherà di qualcosa. Mancherà di una componente essenziale del raccontare, quella dell’essere insieme, contemporaneamente, a picchiettare alla porta del cuore.

Ma quale funzione hanno, infine, le storie? Domanda inutile e retorica, alla luce di quanto si è appena affermato. Domanda, tuttavia, che speso genera risposte di infastidita indulgenza. Viene subito in mente che le storie appartengono al mondo dell’infanzia e che una vale l'altra. Si crede di sapere che le più adatte siano le fiabe. Quelle che si son sempre raccontate. Meglio anzi, per non andare incontro a sorprese, raccontare sempre le stesse. Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Biancaneve e poche altre. Salvo poi a pensare che i bambini ne sappiano molte di più, come se fosse possibile apprenderle per osmosi, o fossero presenti, per sintesi chimica, nelle pillole di vitamine offerte con la colazione del mattino. Di fronte allo sparuto drappello di personaggi fiabeschi che popolano la mente dei bambini ci si consola pensando che storie, fiabe, favole appartengono al passato e i bambini di oggi hanno bisogno di ben altro: concretezza, competenza, capacita' di navigare per mondi reali o virtuali senza incertezze o fantasie. La fame di storie pero' rimane, e non solo nei bambini. Nascosta, avvilita, negata, va alla ricerca di qualcosa che possa soddisfarla almeno in parte. Dopotutto, gli ipermercati di storie non mancano, ne siamo anzi letteralmente assediati. Storie di principesse tristi o di orchi malefici, di giganti egoisti (che tengono ostinatamente serrate le porte del loro giardino), di spazzacamini e fiammiferaie alla ricerca di nuove occupazioni, di pifferai magici con nuovi repertori di lusinghe, di bambini grandi e piccoli che finiscono in casette di pan di zucchero e non sanno ritrovare la strada di casa. Intorno a noi c'è un incessante rumorio di storie. Ma sono storie, appunto, da supermercato. Anche se ben confezionate, mancano della presenza, dell'ascolto, dell'essere insieme. Sono storie prive di vita che, purtroppo, molto raramente vedono il bene trionfare sul male o si concludono con il rassicurante “e vissero tutti felici e contenti”. Spesso, anzi, non si concludono affatto, sono lasciate in sospeso, sopraffatte e incalzate da altre, più grandiose o invadenti che esigono attenzione immediata. Una storia, tuttavia, non è tale se non si conclude, se non rappresenta qualcosa di integro e conchiuso. Le storie hanno un inizio, una parte centrale e una conclusione, se no, semplicemente non sono storie, ma fastidiosi frammenti che ingombrano la mente senza arrecarle alcun beneficio.

Ribadisce a questo proposito Jack Zipes,vii eminente germanista e autore di numerosi saggi sulla fiaba:

“Non si può certo dire che nel mondo occidentale contemporaneo si avverta la carenza di narratori e di storie. Ogni giorno siamo inondati da storie che provengono dalla televisione o dalla radio, che troviamo in giornali e riviste, sul posto di lavoro , in famiglia o nella Grande Rete. Ma a dispetto di questo diluvio, manca qualcosa di importante <….> abbiamo perso il dono della narrazione genuina che era parte integrante della cultura occidentale fino all’inizio del XX secolo. Abbiamo perso il dono di usare il potere delle storie per condividere saggezza e costruire un senso di comunità significativo .”

E su come possa essere definita una narrazione genuina, Zipes aggiunge:

“La narrazione genuina <…> ha un che di magico, nel senso che trasforma l’ordinario in straordinario e ci fa apprezzare e considerare con attenzione le piccole cose della vita, quelle che di solito passano inosservate. La narrazione genuina è spontanea e non preparata piuttosto che programmata e studiata. Non intendo dire con questo che non sia necessario ricordare storie che si sono raccontate nel passato o che non sia importante per un narratore crearsi un repertorio di storie da raccontare con maestria. Intendo dire che una storia genuina o un evento narrativo scaturisce da una particolare occasione e si adatta a quell’occasione sia per chi narra che per chi ascolta. E’ l’essere insieme, è l’incontro di narratore e ascoltatore a conferire genuinità a un momento che, a meno che sia registrato o filmato, è per sua natura fuggevole. Ecco perché non si può definire in modo categorico che cosa sia un narratore genuino o una storia genuina: è il contesto storico-sociale che dà origine all’evento”.viii

Non c’è dubbio alcuno che, in taluni casi, l’evento si crei. Un narratore americano che racconta le sue storie soprattutto all'interno di istituti di rieducazione per minorenni riferisce di essere immancabilmente avvicinato, al termine dei suoi racconti, da uno o piu' giovani che, con timidezza e imbarazzo, se non con vera e propria commozione, gli confidano che nessuno mai, in passato, aveva raccontato loro una storia. Avvertono, questi giovani, di aver ricevuto qualcosa di importante. Non sanno capirne esattamente il perche'. Sanno pero' che è qualcosa che li riguarda personalmente e che , personalmente, gli è stato consegnato. Un dono non sufficiente, forse, per modificare il corso della loro esistenza, ne' a fargliene trovare il senso, ma sufficiente, questo sì, a fargli intuire che un senso ci può essere. Perchè le storie, questo potere, ce l'hanno davvero, purché non siano storie da supermercato e purchè narratore e ascoltatore si incontrino davvero. Un tempo, in molte culture, le pratiche mediche, quelle artistiche e quelle della narrazione erano demandate ad un’unica persona, lo sciamano. Oggi, naturalmente, non è più così, tuttavia molte terapie sono basate sulla narrazione e sull’invito a costruire o ri – costruire la propria storia. Di per se stesse le storie non guariscono dai mali profondi dell'anima e del corpo: di certo però le storie possono curare. Curano l'insensatezza della malattia, sia essa fisica o psichica. Curano la frammentarietà, la disgregazione, la provvisorietà che la malattia porta con sè. Curano o, per meglio dire, si prendono cura, di quanto è ancora sano e ne alimentano la crescita. Come fili che si tendono tra parti diverse del sè offrono sostegno nel difficile percorso verso il recupero di un'integrità perduta o mai posseduta.

Nel mio immaginario, l'esile trama intessuta da una piccola principessa, rafforzata da Momo e dal narratore Salim è diventata una storia e ha sollecitato una riflessione più ampia sul ruolo del racconto nella vita di tutti. Scopo di questo libro è quello di riportare l'attenzione su questo tipo di comunicazione. Non con l’intenzione di formare narratori di professione, ma per aiutare a scoprire o ravvivare il piacere di raccontare e ascoltare. Ancor più che di narratori d'eccezione si sente la mancanza di narratori 'ordinari', di persone che impieghino i loro talenti e condividano le proprie conoscenze per portare, personalmente, soprattutto ai bambini e ai giovani, il dono di una storia.

Il vecchietto cinese dice che, per tenere lontano le tigri, non occorrono grandi mezzi, basta una manciata di briciole di pane. Tante briciole insieme formano una barriera, così come tante parole insieme possono creare una storia: sta all'impegno di ciascuno decidere in quale ordine disporre le parole per trovare quella più bella e più vera e infonderle vita.




i Burnett F.H. La piccola principessa De Agostini Ragazzi

ii Ende M. Momo Longanesi 1984

iiiEnde M.op. cit. p. 17,22,42,45

iv Schami R. La notte racconta… Mondadori, 1993

v Schami R. op.cit. p. 171

vi Yolen J. Guide to Writing for Children, The Winter Paperbook, 1989 (traduzione a cura di Rita Valentino Merletti)

viiZipes J. Sticks and Stones, Routledge, New York 2001, pag. 127 e pag. 135 (traduzione a cura di Rita Valentino Merletti)