PUER IN FABULA

E� ancora possibile oggi creare il lettore di domani? di Rita Valentino Merletti © AA.VV., SEGNALI DI LETTURA ed. Idest , 2003

L’atteggiamento prevalente di chi si trova ad analizzare le conseguenze dei rapidissimi cambiamenti che caratterizzano il nostro tempo è di sgomento e preoccupazione. Se solo ieri si riteneva di poter parlare delle nuove tecnologie e dei mezzi di comunicazione di massa in genere come di potenziali nemici della lettura, oggi si tende ad ammettere che i nemici stanno guadagnando terreno e trovano quotidianamente nuovi alleati. E ciò a dispetto di un “consumo” di libri che – rispetto al passato – è sicuramente cresciuto e del fatto che certi fenomeni editoriali sembrino indicare una fame di lettura addirittura sorprendente. Forse, ciò che si vede in grave pericolo di sconfitta è il desiderio di coltivare una motivazione seria e profonda nei confronti di una lettura intesa come strumento privilegiato di conoscenza e autoconoscenza. Si consumano molti più libri di quanti effettivamente se ne leggano e (forse) la lettura, così come si pensa fosse praticata nel buon tempo andato, sarà prerogativa o privilegio di pochi selezionati individui. Le grida d’allarme in questo senso si sono levate alte, non solo da oggi e, certamente, non solo in Italia. Anzi, hanno cominciato a farsi sentire in paesi con tradizioni di lettura ben più forti e radicate delle nostre. Ricordo un articolo pubblicato sul New York Timesi nel 1989: un professore dell’Università di Harvard, Sven Birkerts, portava all’attenzione del grande pubblico un fatto che, presumibilmente, metteva in seria crisi il suo lavoro di insegnante di scrittura: i suoi studenti, i brillanti, selezionatissimi studenti di una delle più prestigiose università del mondo, non leggevano, né mostravano desiderio, rammarico o propensione a farlo. Erano ragazzi svegli, curiosi, motivati, intelligenti, forse persino più intelligenti di quelli delle generazioni precedenti, ma la lettura non faceva parte del loro orizzonte conoscitivo. Il fatto era – scriveva l’allarmatissimo professore – che non sapevano leggere: al più qualche romanzetto di consumo, il tabloid distribuito gratis alle stazioni della metropolitana, un giornale sportivo o di moda. Si poteva considerare lettura, questa? Si poteva tollerare che rampolli delle famiglie più aristocratiche del paese, cresciuti con la convinzione che avrebbero costituito la classe dirigente di domani, frequentassero un corso di scrittura (obbligatorio per il loro curriculum) senza aver imparato prima a leggere? L’analisi del professor Birkerts, confluita qualche anno più tardi in un saggioii tanto appassionato quanto apocalittico (e controverso), ipotizzava un declino inesorabile della conoscenza trasmessa in forma scritta e racchiusa tra le pagine di un libro e terminava prevedendo che un mondo futuro popolato da non lettori sarebbe tornato ad essere un mondo “piatto”. Una metafora efficace, che esprime tutta la tristezza e il senso di impotenza di chi vede andar disperso un patrimonio di conoscenza tanto amato quanto poco trasmissibile alle generazioni future. Sono molti oggi, in Italia, i docenti universitari pronti a condividere le osservazioni del professor Birkerts e altrettanto numerosi sono quelli che chiedono che i corsi di laurea afferenti a qualsiasi disciplina prevedano – obbligatoriamente – l’inclusione di corsi di educazione alla lettura.

Pochissimi anni prima che il professor Birkerts cominciasse a interrogarsi sulle conseguenze della disaffezione alla lettura dei suoi studenti, Italo Calvino preparava le sue LEZIONI AMERICANEiii, lezioni che avrebbe dovuto svolgere, se la morte non lo avesse prematuramente colto, proprio nella stessa università di Harvard. Come è noto, il testo delle lezioni rappresenta il testamento spirituale di Calvino, un vero e proprio lascito alle future generazioni di scrittori di quanto della letteratura è auspicabile portare nel nuovo millennio. Un millennio che, in termini di scrittura, di lettura e di proposta della stessa, dovrà fare i conti con un lettore che – dice ancora il professor Birkerts - non avrà più solo la parola scritta come base cognitiva, in quanto la sua formazione sarà scaturita dall’interazione con una varietà di fonti e i suoi tempi e modi di apprendimento saranno modellati sui tempi e i modi dei media elettronici.

Le lezioni lasciateci da Calvino si organizzano intorno a cinque grandi categorie: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e l’autore dedica a ciascuna una elaborata e affascinante analisi. Ben più modestamente, le osservazioni che seguono faranno riferimento a queste stesse categorie utilizzandole come spunti di riflessione sulla lettura e sulle attività che, a vario titolo, mirano a promuoverla.

Partire, così come fa Calvino, dal concetto di leggerezza è invito quanto mai allettante se non altro perché il suo contrario, il pachidermico, greve, pedante atteggiamento dell’adulto nei confronti del lettore bambino sembra essere definitivamente scomparso. Il concetto di piacere del leggere, con quel tanto di sorniona leggiadria che lo accompagna, è ormai acquisito, anzi, è diventato quasi un luogo comune. Le alacri attività di bibliotecari e insegnanti testimoniano la volontà di ‘togliere peso’ alla lettura e farla conoscere ai bambini per quello che davvero deve essere: un’attività ricca di fascino, di sorpresa, di scoperta. La sua ‘leggerezza’ tuttavia non deve trarre in inganno e così come i voli più arditi, le qualità aeree e ariose della mente sono tutt’altro che prive di consistenza, anche la proposta di lettura, pur nella sua levità, deve conservare un preciso rigore. Sostituire infatti al ‘peso’ o al dovere della lettura il ‘piacere’ che da essa è obbligatorio ricavare non basta. E’ arrivato il momento di spostare l’attenzione sulle condizioni che devono sussistere alla base del piacere del leggere, condizioni che - è inutile nasconderlo per timore di essere tacciati di una nuova forma di pedanteria – costano fatica. Gli eventi estemporanei, che fin troppo spesso si allestiscono con l’intento di promuovere la lettura (visite di autori nelle scuole, mostre, fiere, spettacoli teatrali di animazione), non bastano. Serve – soprattutto all’interno della scuola - un lavoro svolto con passione giorno dopo giorno, un lavoro utile a costruire competenze (negli adulti oltre che nei bambini) e a cui gli avvenimenti estemporanei si aggiungano come momenti di arricchimento e completamento. Non ci si può considerare soddisfatti se l’ operazione di ‘sottrazione di peso’ va a coincidere con una progressiva infantilizzazione del lettore, una supina accettazione di prodotti editoriali mediocri di spiccata caratteristica ‘gastronomica’ e oggetto di operazioni di marketing che sanno applicarsi tanto a un libro quanto a un paio di scarpe da ginnastica. Con quali armi è infatti verosimile combattere le astute strategie di un marketing teso a lusingare il consumatore di libri facendogli credere di essere un lettore? Come evitare questa pericolosa confusione e come impedire che – fatalmente – il consumo di parole scritte venga a noia ( l’industria editoriale sente già le sinistre avvisaglie di questo atteggiamento), trascinando con sé in una grigia apatia o in un aprioristico rifiuto l’atto stesso del leggere? Come in tutte le guerre impari, le uniche armi efficaci sono quelle che scaturiscono da intelligenza e passione. Solo facendo leva su queste indispensabili qualità l’educatore sarà in grado di “togliere peso” alla lettura senza rischiare di renderla – così come vorrebbero gli strateghi del marketing- un involucro tanto seducente all’esterno, quanto privo di consistenza all’interno. L’ educatore dotato di intelligenza e passione sa che per ‘togliere peso’ è necessario aver compiuto un percorso personale faticoso quanto – alla fine - appagante per approdare ad atmosfere più rarefatte e respirabili. Atmosfere che, una volta conosciute, si trova difficile abbandonare e che si desidera ardentemente far conoscere a chi ancora non le ha assaporate. Spesso, purtroppo, il percorso formativo dell’educatore rimane incompiuto. Si ferma agli stadi della fatica cosicché, quando giunge il momento di accompagnare sullo stesso percorso chi ancora ha bisogno di essere guidato, non si sa far altro che trasmettere, a volte con puntigliosità quasi astiosa, solo le asperità, le incertezze, le fatiche del procedere e non la confortante visione della gioia della conquista acquisita.

Alla nozione di leggerezza analizzata fin qui in funzione della lettura, ben si accompagna un’altra categoria calviniana, quella dell’esattezza. La prenderemo qui in considerazione come capacità di mettere in relazione empatica libro e lettore. Un’importante componente del piacere del leggere ha infatti la sua radice profonda nel tipo di relazione che il testo instaura con il vissuto del lettore. Parafrasando Umberto Eco si potrebbe parlare di “puer in fabula”, poiché la lettura implica la cooperazione del lettore-bambino nella costruzione del significato della storia. Un significato tanto più ricco e soddisfacente quanto più numerosi sono gli elementi che il lettore bambino è in grado di mettere in relazione con la propria esperienza di vita.

Essendo il vissuto del bambino necessariamente limitato, la richiesta di esattezza della proposta è particolarmente forte. Devono essere esatte le parole che si usano (semplici, comprensibili, precise, concrete, capaci di tradursi in immagini mentali nitide e vivide); deve essere esatta e approfondita la definizione psicologica del personaggio e della situazione; devono essere esatti i dettagli che delineano l’ambiente e il tono della vicenda. La scelta di libri corrispondenti agli stadi evolutivi del bambino non implica tuttavia un’adesione rigida e pedestre alle classificazioni (spesso un po’ casuali) delle fasce di età che compaiono sulla copertina dei libri destinati ai bambini e ai ragazzi. Si può affermare, anzi, che i grandi libri e le grandi storie non hanno bisogno di queste alchimie: sanno infatti creare risonanze diverse in lettori diversi per età, capacità, interessi. Molti “picture books” ivdi produzione inglese o americana recano in copertina (nei paesi d’origine) l’indicazione “all ages”, per tutte le età. Le storie che raccontano, attraverso il testo e l’immagine, sono in grado di sollecitare l’interesse di grandi e piccoli (il che li rende, tra l’altro, libri ideali per la lettura condivisa) e di mettere in moto percorsi interpretativi di tutto rispetto. Si vedano, a titolo di esempio, e per limitarci alle pubblicazioni più recenti sul mercato italiano, i libri firmati da autori quali Roberto Innocenti o Jan Falconer .v A ben vedere i picture books sono i libri più innovativi e più ricchi di potenzialità ed efficacia comunicativa degli ultimi trenta-quarant’anni di storia della letteratura dell’infanzia (e non). Per le loro intrinseche caratteristiche soddisfano almeno altre due categorie analizzate da Calvino: quella della rapidità e quella della molteplicità. Per quanto riguarda la prima basterebbe pensare a quel piccolo prodigio di sintesi e di compattezza narrativa inventato da Maurice Sendak ne IL PAESE DEI MOSTRI SELVAGGI (ed. Babalibri): una manciata di (sceltissime) parole cui si possono attribuire la densità e il peso specifico della prosa poetica, per raccontare, con perfetta alternanza di ritmi, una storia accuratamente bilanciata tra significato letterale e significato simbolico. Il testo verbale di Sendak, tuttavia, così come avviene in tutti i picture books, non agisce da solo sul piano della comunicazione. Si somma alle immagini, dando vita a quel processo di lettura che comprende, in simultanea, l’attivazione di due diverse strutture cognitive che, insieme, vanno a costruire un significato integrato.

La struttura formale del picture book è andata sempre più precisandosi, e gli studi semiologici più recenti hanno contribuito non poco a mettere in risalto tutta la sua potenzialità comunicativa. In mancanza di un vocabolario specifico , per definire alcune caratteristiche del picture book e in particolare per definire la relazione che intercorre tra testo e immagine si è fatto spesso ricorso a metafore tratte dal mondo della musica. Si è parlato quindi di “duetto”, di “contrappunto” o di effetto “antifonale”. Si è messa in risalto l’affinità tra il genere picture book e l’opera lirica: alcuni critici, vi infatti, parlando di “polisistemicità” mettono l’accento sulla capacità del picture book di farsi crogiolo (esattamente come accade nel teatro musicale) di una pluralità di sistemi significanti. Perry Nodelman , infine, nel suo pionieristico studio in materia vii sottolinea il fatto che codice verbale e codice iconico ponendosi in relazione tra loro avrebbero la reciproca capacità di trasformarsi: il rapporto tra testo e immagini non sarebbe dunque questione di equilibrio dell’ efficacia comunicativa quanto questione legata al cambiamento prodotto dal loro interagire. Molto ancora ci sarebbe da dire su questo argomento davvero ricco di sorprese e di promesse e che lascia intravedere modalità di lettura più consone al lettore di domani, un lettore forse più frettoloso, ma anche più pronto ad assorbire e decodificare una pluralità di codici. Un lettore che, secondo l’opinione di molti, avrà sempre più bisogno del sostegno delle immagini essendosi disabituato a creare immagini mentali autonome. Scrive Calvino a questo proposito: “ Se ho incluso la visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale : il potere di mettere a fuoco visioni ad occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini.”viii Il pericolo c’è, realisticamente non lo si può negare, ma non è obbligatorio, né forse opportuno, investirlo di previsioni catastrofiche. Forse è necessario riflettere, con atteggiamento più sereno (e meno nostalgico), sulle opportunità che sempre si accompagnano ai grandi cambiamenti per imparare a gestirli, con intelligenza e passione.